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Aurelio

Aurelio è il nome del tredicesimo quartiere di Roma, indicato con Q.XIII.

Aurelio è il nome del nono suburbio di Roma, indicato con S.IX, ed è omonimo del quartiere Q.XIII.

Si trova nell’area ovest della città, a ridosso delle Mura Vaticane e delle Mura Aureliane.

Storia

L’Aurelio è fra i primi 15 quartieri nati nel 1911, ufficialmente istituiti nel 1921 e prende il nome dalla via Aurelia.

Siti archeologici e monumenti

Borgo delle Fornaci

Il nome deriva dalla presenza di numerose “fornaci” per laterizi da costruzione qui impiantate in considerazione del particolare terreno argilloso. Esse furono intensamente sfruttate già nel periodo della Roma Imperiale. Anche Teodorico e Belisario se ne servirono per i restauri alle Mura Aureliane-Onoriane.

Con i papi rinascimentali, dopo Avignone, riprese in pieno il loro utilizzo raggiungendo il massimo sviluppo con l’apertura del cantiere per la costruzione della Basilica di S. Pietro.

Le “fornaci” hanno continuato a funzionare fino all’inizio degli anni ’60 per poi cessare definitivamente la loro attività in seguito alla massiccia e dilagante urbanizzazione del territorio adiacente.

Alla metà del secolo XVI il territorio occupato dalle fornaci prese il nome da questa attività assumendo il toponimo di “Vallis Fornacum” (Valle delle Fornaci).

Tra il 1570 e il 1580 nacque il vero borgo con la costruzione disposta in modo ordinato. Le fornaci, separate tra di loro da muri di cinta, si allineavano lungo la strada diretta a “Porta de’ Cavalli Leggeri” e, risalendo il declivio retrostante, occupavano tutto lo spazio disponibile per arrestarsi davanti alle cave di creta.

Sentieri campestri assicuravano i collegamenti all’interno del borgo.

Nei primi decenni del XVIII secolo l’asse stradale di via delle fornaci, l’antica “Via Posterula“,era delimitato da un alto muro di cinta, nel quale si aprivano gli accessi alle varie proprietà, simile a quello che ancora oggi delimita il tratto più antico e meglio conservato.

La sopravvivenza del borgo è accertata fino ai primi del ‘900 quando, con la trasformazione in quartiere urbano, perderà purtroppo i suoi connotati di sobborgo industriale. Attualmente, in fondo a via della Cava Aurelia, troviamo l’ultima fornace della zona (la fornace Aurelia), abbandonata, ma ancora in discrete condizioni.

Il collegamento tra borgo e la Fabbrica di San Pietro avveniva attraverso due porte delle mura vaticane: Porta Cavalleggeri e Porta Fabbrica.

Chiesa di Santa Maria delle Grazie alle Fornaci

Il monumento più imponente del territorio intorno a Porta Cavalleggeri è la chiesa di S. Maria delle Grazie alle Fornaci.

Collocata al centro del quartiere la sua costruzione iniziò nel 1694 grazie all’abbondanza delle offerte e l’appoggio del Cardinale Carpegna.

Presenta una facciata realizzata nel 1727 sotto il pontificato di Benedetto XIII, forse su disegno di Filippo Raguzzini, scandita da lesene, articolate in due ordini sovrapposti, separati tra loro da un cornicione aggettante e conclusa da un coronamento mistilineo. E’ possibile notare il riferimento stilistico con la facciata dell’oratorio dei Filippini del Borromini senza tuttavia arrivare alla tensione strutturale tangibile nell’edificio borrominiano. Il rilievo sul portale di ingresso, realizzato in stucco, materiale molto usato nel ‘700, rappresentava la “liberazione degli schiavi”. Il cartiglio che racchiude la scena è avvolto nel manto e sormontato dalla corona della Vergine sotto la cui protezione è posta la chiesa.

Lo schema planimetrico adottato è a croce greca con quattro cappelle inserite nell’incrocio dei bracci. Questa scelta nasce e dalla volontà di rifarsi alla tradizione architettonica romana, in particolar modo del cinquecento, e dalla particolare collocazione dell’edificio, costruito sopra un rilievo del terreno, e dalla notevole dimensione dello stesso.

L’assetto della pianta centrale è però in contraddizione sia con la facciata esterna, la quale, con il suo alto prospetto, nasconde la volumetria complessiva della chiesa, sia con l’interno per la mancata costruzione della cupola, mai realizzata a causa di difficoltà economiche e architettoniche. Infatti, la notevole profondità dell’abside e la disposizione delle cappelle, collegate tra loro, suggeriscono già l’idea di una divisione in navate dello spazio. La presenza, infine, della sagrestia e del campanile, eretto nel XX secolo, accentuano la sensazione di longitudinalità dell’assetto planimetrico.

Nell’interno della chiesa, sull’altare maggiore, è custodita l’immagine della Vergine commissionata al pittore di Liegi Gilles Hallet (Egidio Alet 1620/1694). La tela rappresenta la Madonna con il bambino benedicente che stringe nella mano sinistra il globo. La convenzionalità del soggetto, dipinto a scopo devozionale, è compensata dallo studio cromatico e dalla riuscita rappresentazione del bambino.

Accanto alla facciata della chiesa sorge il convento costruito tra il 1721 e il 1725 per ospitare il Collegio Apostolico per le Missioni. Il portale, di chiara ispirazione borrominiana, è collegato al livello stradale da una scalinata a doppia rampa simile a quella costruita ai piedi della chiesa.

Chiesa della Madonna del Riposo

Le prime notizie della chiesa si hanno dal diario di Antonio Pietro del Schiavo, cronista romano del primo ‘400, dove viene citata la cappella di S. Maria del Riposo. E’ probabile, comunque, che assai prima della nascita della cappella, ci sia stata un’edicola con l’immagine della Madonna posta forse in quel luogo in memoria di un antico cimitero sacro, divenuta poi un’immagine miracolosa per le molte grazie esaudite ai viandanti ed ai pellegrini che qui sostavano per rinfrancarsi e dire una preghiera prima di proseguire il proprio cammino.

Fu allora che si volle costruire la cappella dedicata alla Madonna del Riposo. Nella seconda metà del 500 i Papi Pio IV e Pio V provvidero al restauro e all’ampliamento della costruzione originaria (avancorpo, secondo locale, per la sagrestia e, forse, le due stanze sovrastanti la sagrestia). Papa Pio V fece adattare a proprio uso un casale che sorgeva alle spalle della chiesa, fatto demolire, in seguito ad una intensiva urbanizzazione, nel 1953, del quale ci rimane soltanto lo splendido potale bugnato di travertino visibile sul lato sinistro.

All’interno della piccola chiesa troviamo, sopra l’altare, l’affresco della Madonna col Bambino, probabilmente di epoca rinascimentale, mentre le pitture di contorno, compresi il trono e gli angeli che fanno da sfondo, sono sicuramente di epoca successiva. Gli angeli ai piedi delle nicchie possono essere opera di allievi di bottega manieristica.

La volta a cupola sopra l’altare presenta un affresco di stile sei-settecentesco raffigurante l’incoronazione della vergine.

Non è possibile invece datare il paliotto dell’altare realizzato con marmi pregiati con agli angoli i gigli Farnese.

Villa Carpegna

Costruita forse su di una preesistente palazzina cinquecentesca, sorge su una antica area cimiteriale romana, desumibile dai numerosi reperti che si potevano ancora ammirare all’inizio del XX secolo: sarcofagi vari, un’urna cineraria, una lunga iscrizione dedicata ad un eques romano, capitelli, colonne e bassorilievi.

I Carpegna entrarono in possesso della villa alla fine del ‘600 quando, sotto il pontificato di Clemente X, il Cardinale Gasparre Carpegna fu nominato Vicario del Papa.

La villa fu destinata dal Cardinale a contenere le sue numerose collezione artistiche e, in special modo, quella numismatica ceduta poi, alla sua morte, ai musei vaticani.

La Famiglia Carpegna fu proprietaria della villa fino alla fine del XIX secolo. Fu poi acquistata da un certo Achille Piatti che la vendette successivamente alla baronessa Caterina Scheynes la quale, a sua volta, la lasciò in eredità alla nipote baronessa Emma Sofia Stocher.

La baronessa Stocher nel 1941 vendette la proprietà alla società immobiliare dei Beni Stabili, all’istituto dei Fratelli Ospitalieri (1955), al Pontificio Collegio Spagnolo (1956) e alla Sacra Congregazione di Propaganda Fide (1961).

A loro volta i Beni Stabili hanno venduto la loro proprietà alla Domus Mariae che ha lottizzato 8 dei 15 ettari acquistati. La Domus Mariae lascerà l’edificio disabitato e il parco in completo abbandono.

Dall’1 Aprile 1981 il complesso è divenuto parco pubblico. L’attuale proprietario è il Comune di Roma.

Dalla piazza omonima si accede alla villa attraverso un portale, fatto erigere dal Cardinale Carpegna, decorato a bugnato di travertino avente sulla sommità lo stemma dei Carpegna e ai lati due finestroni decorati anch’essi di travertino e chiusi da una grata in ferro battuto. La parte interna è decorata con spuma di travertino, ghiaia, tufelli e stucco.

Percorrendo poi uno stretto viale, fiancheggiato da pini secolari e siepi di alloro, si arriva ad uno spiazzo semicircolare fronteggiante il lato est della Villa.

L’edificio ci appare privo di unitarietà risentendo sicuramente delle trasformazioni successive ad esso apportate.

Il Cardinale Carpegna ampliò la parte abitativa già esistente, composta da un corpo centrale ed un torretta – elemento caratteristico delle Ville Laziali – costruendo due nuove ali sormontate entrambe da torrette ed emulando in questo modo i modelli delle ville Medici e Borghese.

La parte certamente più interessante è costituita dal salone principale dell’edificio decorato con affreschi in stile pompeiano raffiguranti soggetti allegorici, colonne decorate a finto marmo, con basi, capitelli e frammenti di architravi, arricchiti con festoni sorretti da putti. Le colonne, poste sulle pareti laterali in prossimità degli accessi al piano superiore, sono collegate tra loro da balaustre dipinte e disposte, secondo uno schema modulare, ad intervalli regolari. Sulle due rimanenti facciate, ai lati delle porte-finestre, troviamo le stesse colonne, ma più numerose, a creare una prospettiva di cui le stesse porte-finestre costituiscono i punti di fuga. Il salone in questo modo viene movimentato dalle decorazioni che troviamo anche sugli stipiti delle porte-finestre, anch’esse dipinte in finto marmo.

Negli intercolunni del salone della Villa compaiono paesaggi con figurine di soldati, animali, file di carri, di minuscole dimensioni dipinti a tempera.

Partendo dalla parte posteriore dell’edificio, lungo il viale principale, si trova la prima fontana. Di qui parte una cordonata a doppia rampa di mattoni a spina e brecce battute che scende verso la seconda fontana per poi risalire fino al ninfeo. Il ninfeo reca sulla volta lo stemma dei Carpegna in paste vitree bianche e azzurre: le pareti interne sono decorate con mosaici policromi di sassi e lapilli. Il terrazzamento nel retro della Villa sfrutta la naturale pendenza del terreno per creare effetti di movimento e di colore prendendo come modello l’analoga disposizione a giardino del Casino di Pio V.

Recentemente la villa è stata restaurata ed il casino di caccia è stato destinato a spazio museale

 

 

 

Villa Doria-Pamphili

Villa Pamphili, con una superficie di184 ettarie un perimetro di circa9 Km, è la villa storica più grande di Roma e una delle “ville” meglio conservate: l’unica manomissione si deve all’apertura della via Olimpica (via Leone XIII) che ha diviso in due l’antica tenuta.

L’edificio più antico della villa sorto lungola via Aurelia Anticaè conosciuto come “Villa Vecchia” ed esisteva già nel 1630 quando il fratello del Papa Innocenzo X, Panfilio Pamphili, marito di donna Olimpia Maidalchini, acquistò una vigna di10 ettaripresso l’antica Basilica di San Pancrazio.

Tra il 1644 e il 1652, sotto il pontificato di Innocenzo X Pamphilj, venne costruito ad opera degli architetti Algardi e Grimaldi, il complesso della “Villa Nuova”.

La villa è divisa in tre parti: il palazzo e i giardini (pars urbana), la pineta (pars fructuaria), e la tenuta agricola (pars rustica).

Tra l’altro, si può ricordare come il Goethe e il D’Annunzio restarono molto colpiti dalla bellezza della villa.

Nel 1849 la villa fu teatro di una delle più cruente battaglie per la difesa della “Repubblica Romana”: le truppe francesi di Napoleone III il 2 giugno occuparono villa Corsini, allora alla periferia ovest di Roma e le truppe garibaldine tentarono invano di scacciarle.

Nel 1856 la villa fu unita alla confinante villa Corsini e tutto il complesso venne trasformato in una grande azienda agricola.

Iniziati i primi espropri da parte del Comune di Roma nel 1939, il nucleo originario della villa fu acquistato dalla Stato Italiano nel 1957.

Oltre168 ettarifurono acquisiti dalla municipalità romana; la parte occidentale nel 1965, la restante nel 1971 con apertura al pubblico nel 1972.

È, inoltre, la sede di rappresentanza del Governo italiano.

Rimane proprietà della famiglia Doria Pamphilj la cappella funeraria opera di Odoardo Collamarini.

Villa Flora

L’attuale nome della villa deriva dalla denominazione “Hotel Flora”, assegnato al complesso dalla Casa generalizia dell’Ordine dei Servi di Maria. Espropriata nel 1975 dalla Regione Lazio per la “realizzazione di un parco pubblico attrezzato nel Quartiere Gianicolense” fu acquisito dal Comune di Roma nel 1978.
La villa, nota nei documenti ottocenteschi e novecenteschi come Villa Signorini, è costituita da un casino nobile, di forme eclettiche ispirate a modelli neomedioevali e neorinascimentali, con torre provvista di bifore e merli. Sono inoltre visibili i resti di due serre, in ghisa e vetro, anch’esse di forme neomedioevali.
Piacevole è il parco, costituito da un lungo viale fiancheggiato da cipressi, che sale dalla via Portuense alla sommità dell’altura, dove sono gli edifici; le pendici sulla sinistra presentano numerosi esemplari di pini, palme e cedri.

Potrebbe essere il fiore all’occhiello dell’amministrazione, un eccellente spazio a misura d’uomo.
Purtroppo è un’antica villa gentilizia degradata, abbandonata e recintata, un pugno in un occhio per la splendida cornice di verde che circonda l’edificio storico.
Manca un piano serio di utilizzo della villa e la manutenzione dal 1978 non è stata mai effettuata, numerosi extracomunitari bivaccano negli edifici storici ormai diroccati.
La notte l’area rimane aperta priva di illuminazione e la villa diventa terra di nessuno e utilizzata come dormitorio e per attività illegali.
L’antica villa gentilizia ottocentesca e gli edifici circostanti, notevoli esempi di modelli storici neorinascimentali e neomedievali, versano in pessimo stato di conservazione e tutti in stato di abbandono.

Villa Bonelli

Villa Bonelli è un parco urbano di 4,5 ettari, dove risiedono la presidenza del Municipio XV Arvalia-Portuense, gli uffici Cultura, Sport e Scuola e lo Sportello per le imprese.

Storia

Un documento fiscale del 1693 nomina l’abate Cenci e monsignor Pallavicini, proprietari della vigna “in contrada Vicolo Inbrecciato”, per la quale pagano le tasse più alte del comprensorio.

Un secolo dopo e oltre, il Catasto gregoriano (anno 1818, mappa 159, particella 235) attesta una “casa con corte per l’uso del Vignarolo”, primo nucleo della moderna Villa Bonelli, su una superficie di 32 centesimi catastali.

La proprietà è ancora ecclesiastica – precisamente della chiesa di S. Maria in via Lata – ma su di essa il vignarolo Giuseppe Pagani vanta il diritto di “enfiteusi perpetua”, una sorta di affitto a basso canone, riscattabile, molto vicino al moderno contratto di “leasing”.

Non solo. Pagani ha in enfiteusi anche l’intera “vigna” (particella catastale 234) che misura 8 quadrati, 8 tavole e 27 centesimi, e il “fienile” (particella 233) che misura 6 centesimi.

Verso il 1839 l’operoso vignarolo aggiunge al casale un corpo perpendicolare (visibile nella mappa della Congregazione del Censo), ma verso metà Ottocento l’attività deve conoscere un rapido declino: nelle mappe la nuova ala è crollata, e un documento del 1878 annota che il fienile è ormai “diruto”.

L’enfiteusi sarà “riscattata” (pagando il valore capitalizzato del canone) verosimilmente intorno al 1870, anno in cui la piena proprietà passa a Giuseppe Balzani.

 I Balzani (e poi i Trinchieri) sono proprietari di Villa Bonelli per mezzo secolo, dal 1870 al 1926. Le loro vicende familiari sono state ricostruite dagli studi attenti di Carla Benocci.

Alla morte del capostipite Giuseppe Balzani, nel 1885, ereditano congiuntamentela vedova Virginia Ciocci-Balzanie i figli Saverio, Giuseppe e Silvia.

Virginia Ciocci-Balzani muore due anni dopo, nel 1887, e la proprietà si consolida nei tre figli. La comproprietà non deve essere stata facile, tanto che il 28 gennaio 1900 si arriva ad una spartizione:la tenuta Balzaniviene assegnata in via esclusiva alla figlia femmina, andata sposa ad Emilio Trinchieri.

Alla morte di Silvia Balzani-Trinchieri, nel 1902, la proprietà passa in eredità congiuntamente al marito Emilio e alla numerosa figliolanza: Virginia, Giuseppe, Emma, Giovanna, Giovan Battista e Marcello.

Intorno al 1906 sono attestati degli abbellimenti che portano la dimora ad assumere carattere signorile e “forma ad L”, e ad essere indicata nelle mappe come “Casa Balzani” o già “Villa Balzani”. La sua estensione, delimitata dalle attuali vie Montalcini, Fuggetta, Baffi, Ribotti e Valli, è di 113 mila mq.

Gli eredi Trinchieri vendono la proprietà a all’agronomo ing. Michelangelo Bonelli, già proprietario della paludosa Piana Due Torri il 29 ottobre 1925.

La sua opera avrà del prodigioso: unificate le proprietà, prosciuga le acque stagnanti con idrovore di sua invenzione, scava un ramo artificiale del Tevere (l’attuale via Pian due torri) e con vasche e chiuse porta l’acqua per l’irrigazione sù in collina. In pochi anni la valle si copre di carciofi e altri ortaggi, il pendio collinare di vigna pregiata e frutteto.

Al casino nobile si aggiungono un nuovo corpo di fabbrica ela serra-studio. Ilparco si addolcisce con scalinate, fontane e terrazze prospettiche, con querce, pini e cipressi.

Mussolini nel 1938 chiederà la tenuta per ampliare l’EUR: Bonelli gli dirà di no.
La tenuta di Bonelli, alla sua morte, fu ereditata dal conte Tournon, che ne aveva sposato una delle figlie.
Il conte iniziò a lottizzare e costruì le prime case, distruggendo gran parte degli alberi circostanti.
Tra gli anni ’60 e ’70 venne costruita la maggior parte dei ‘casermoni’ della Magliana.
Tutta la zona, situata sette metri sotto l’argine del Tevere, doveva essere reinterrata sino a raggiungere il livello dell’argine stesso.
Il Comune diede il permesso di costruire, alla sola condizione di sottoscrivere un atto d’obbligo che impegnava i costruttori a reinterrare i due primi piani dei palazzi in epoca successiva, accordo che non fu mai rispettato.
Furono così realizzati due piani in più rispetto a quelli previsti. Non si costruirono invece strade, fogne, scuole, campi sportivi e soprattutto niente verde.

Negli anni ’80 la villa passa al Comune; nel 2004 gli arch. Panunti e Santarelli hanno progettato il restauro, completato nel marzo 2005. Un’area bimbi e spazi culturali completano la villa.

Dal dopoguerra ad oggi la periferia di Roma ha cambiato fisionomia: via della Magliana Nuova è una sorta di diramazione di via della Magliana, creata per smaltire il grosso traffico della strada principale.
La costruzione della stazione ferroviaria di Villa Bonelli ha reso più agevoli i collegamenti col centro della città.
Tuttavia nonostante il traffico, la viabilità in tilt, il cemento armato dei palazzi costruiti uno addosso all’altro, c’è un ricco patrimonio artistico ed ambientale da rivalutare.

Villa Lazzaroni

La prima testimonianza di un insediamento agricolo nell’area dell’attuale villa è rintracciabile nella mappa CLX del Catasto Gregoriano (1817-18): nel sito dove oggi è presente l’edificio padronale esisteva un manufatto, presumibilmente rustico, caratterizzato da un corpo a “L”, con il lato corto superiore in corrispondenza del vicolo vicinale che dava accesso alla “chiusa” (terreno delimitato da recinzioni, muri ecc.) agricola.

L’insediamento appare maggiormente delineato nella Carta della Congregazione del Censo del 1834 (o 1839?) nella quale ricompare la stessa forma a “L” dell’edificio con il relativo vicolo a cui si raccordano alcuni tracciati poderali perpendicolari in direzione delle strade principali circostanti: questa configurazione esplicita un assetto viario che sarà ripreso per la successiva sistemazione a giardino.

Una prima denominazione dell’area compare nella carta von Moltke del 1845-52 dove la chiusa è indicata come “vigna Peromini”; la carta dell’Istituto Geografico Militare del 1900 documenta invece una trasformazione del manufatto con l’aggiunta di un ulteriore corpo di prolungamento a sud, tale da determinare una nuova pianta complessiva ad “S”.

La denominazione “Vigna Lazzaroni” compare per la prima volta nella pianta dell’Istituto Cartografico Italiano del 1906.

Dato che la pianta stessa ripropone l’antico corpo a “L”, sembra plausibile datare l’acquisizione dell’area e la trasformazione dell’edificio da parte della famiglia Lazzaroni agli ultimi decenni del sec. XIX; purtroppo di essa manca qualsiasi documentazione a causa dell’assenza di notizie nell’archivio Lazzaroni: l’unico riferimento cronologico post-quem, che attesta la proprietà della famiglia, è contenuto in una denuncia di ritrovamenti archeologici, effettuati dal “sig. Hueffer” per conto del “sig. Marchese” Lazzaroni, presentata il 27 maggio 1879 alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione; in tale documento si parla ancora di “vigna” Lazzaroni avvalorando l’ipotesi che a quella data non erano ancora stati compiuti i lavori di trasformazione della chiusa agricola in villa padronale.

Le vicende della famiglia negli anni tra il 1880 e il 1893 possono giustificare l’investimento di capitali nella ristrutturazione della tenuta agricola ottocentesca, nel tentativo di imitare le ville patrizie dei secoli passati.

I baroni Edgardo e Michele Lazzaroni, finanzieri legati alle vicende della Banca Romana, dotati di spiccato interesse artistico ed antiquariale, rappresentano il punto di riferimento per comprendere i lavori realizzati nell’antica vigna, alla luce di un contesto sociale e culturale ben definito: famiglia di nuove fortune, titolata di baronia motu-proprio di Umberto I dell’aprile 1879, i Lazzaroni risultavano all’epoca proprietari del Palazzo Grimaldi a largo dei Lucchesi e di alcune tenute nell’Agro romano, come quelle di Tor di Quinto e Leprignana.

Un gusto eclettico e autocelebrativo caratterizza gli interventi decorativi commissionati nel palazzo e nella residenza-studio di Tor di Quinto.

La realizzazione di una villa “di delizia” era indispensabile per completare l’immagine dei neoaristocratici in cerca di legami, almeno simbolici, con la grande nobiltà romana dei secoli precedenti.

I lavori di ristrutturazione effettuati nella vigna sulla via Appia Nuova si limitano comunque all’ampiamento del casale rustico preesistente, del 1840-50.

L’intervento di riqualificazione dell’edificio è incentrato sulla decorazione del prospetto settentrionale, corrispondente al lato corto del rustico preesistente già utilizzato come punto di arrivo del vecchio vicolo vicinale, e sulla destinazione d’uso del corpo ortogonale proteso ad ovest:

la piccola facciata è disegnata in stile neoclassicheggiante con portico aggettante a tre aperture, sovrastato da un terrazzo cinto da balaustre all’altezza di tre finestre corrispondenti alle aperture sottostanti, decorate da mensole, architravate e coronate da timpani triangolari;

gli spigoli del prospetto sono risaltati da finte bugnature angolari;

il corpo occidentale fu realizzato per dotare l’edificio di un grande salone da adibire a balli e ricevimenti, ed è caratterizzato da grandi finestroni ad arco e da una scalea con accesso ad una balconata sovrastante una grotta decorata in stile rustico.

Alcuni caratteri architettonici, come il portico d’accesso aggettante con la terrazza balaustrata o le bugnature angolari di risalto, sono stilemi eclettici riscontrabili in edifici di ville coeve, come Villa Miani (1873-74) o Villa Ada Savoia (1873), elemento di conferma della datazione proposta per gli interventi di Villa Lazzaroni.

Il parco

Il parco, ampio circa 50.000 mq, è una creazione originale dei Lazzaroni, concepito come ricco giardino padronale, seguendo il gusto paesaggistico eclettico tipico della fine del secolo scorso.

Si possono ancora riconoscere quattro fontane rustiche, a scogliera di tufo, sistemate nei punti cruciali del sistema viario; due, circolari, coronano gli slarghi prospettici che raccordano i diversi percorsi, altre due abbelliscono, assieme ad alcune aiuole, le aree antistanti il prospetto nobile e il salone dei ricevimenti.

L’accurata selezione delle essenze botaniche andrebbe collegata alle attestate competenze in materia di giardinaggio del barone Michele, chiamato a presiedere importanti commissioni pubbliche come quella nominata nel 1890 per la scelta del Direttore dei giardini comunali.

L’arredo del parco è completato da un manufatto adiacente al portale d’ingresso destinato alla guardiania, sul quale s’appoggia lateralmente un piccolo ninfeo rustico con accesso ad un ambiente sotterraneo.

Se la datazione precisa di questi interventi potrà emergere solo dal rinvenimento di sicure documentazioni, sembra tuttavia plausibile supporre che essi siano stati avviati e portati a compimento, nelle loro linee principali, entro il 1893, anno in cui lo scandalo della Banca Romana travolse la famiglia e, in particolare, il barone Michele che ne era stato l’amministratore.

La proprietà Lazzaroni sembra interrompersi agli inizi del ‘900.

Le successive vicende della villa ne hanno alterato l’aspetto e le proporzioni.

Villa Lazzaroni venne utilizzata nel 1908 come ricovero per gli orfani del terremoto di Messina a cura dell’Orfanotrofio Pio-Benedettino.

Nella pianta dell’Istituto Geografico De Agostini del 1911, immediatamente adiacente all’area dei nuovi “Depositi Tramways dei Castelli”, è visibile la sistemazione del giardino per la parte nord.

Al momento della notifica del vincolo monumentale (D.M. del 2 agosto 1922) risulta di proprietà di un certo Giulio Barluzzi, o, quantomeno, in enfiteusi, poiché nel 1930, nella Deliberazione governatoriale n. 2223, un Michele Lazzaroni è menzionato ancora come intestatario di fornitura d’acqua dell’Aquedotto Felice che viene volturata alla Società Anonima per Edificazioni Stabili (S.P.E.S.).

Le carte dell’Istituto Geografico Militare del 1924 e Marino-Gigli del 1934 mostrano il giardino interamente realizzato, con precisa definizione dell’area padronale: la regolarità determinata dal muro di cinta ad angolo trala via Appiae il “Deposito Tranvai” e dall’incrocio principale dei viali ortogonali, realizzati sugli antichi tracciati poderali, la centralità prospettica delle fontane, conferiscono alla chiusa un gusto ancora settecentesco, arricchito dalle movenze sinuose dei percorsi minori che inseriscono, insieme alle scelte botaniche di impronta esotica, elementi discreti di quel paesaggismo eclettico in voga alla fine del secolo.

Dopo l’ultima guerra fu acquistata dalla Provincia Italiana dell’Istituto delle Suore Francescane Missionarie di Maria.

Nella carta dell’Istituto Geografico Militare del1949 l’edificio padronale presenta un corpo aggiunto allungato ad est che ne determina una pianta cruciforme.

Nel 1960-61 furono costruiti un orfanotrofio (poi diventato asilo) e la chiesa, che hanno trasformato la pianta a squadra originale in una croce sproporzionata, infliggendo un colpo mortale alla qualità estetica della parte più pregevole del giardino padronale.

Negli anni successivi i2 ettaridel parco verso nord sono ceduti al Comune mediante una permuta, e viene realizzato un muro divisorio tra le due proprietà che altera l’aspetto della chiusa agricola.

Per circa due anni il giardino restò aperto a una utenza potenziale di 60.000 persone nella situazione in cui si trovava al momento della cessione; l’accesso incontrollato provocò la scomparsa di prati e cespugli e il degrado dei viali.

La conseguente risistemazione, durata circa un anno, della fascia pubblica ne ha ulteriormente snaturato il carattere paesaggistico a causa di una serie di sistemazioni: una pista di pattinaggio a rotelle; un circolo con due campi di bocce; giochi per bambini (altalene, castello di tubi, fossa della sabbia, tubi di cemento orizzontali con oblò, serie di parallele a varie altezze) nella parte rimanente.

Negli anni ’70 l’ampliamento di via Raffaele de Cesare comporterà l’arretramento del muro di cinta a nord e l’abbattimento di un portale d’ingresso; le manomissioni dell’assetto storico si protraggono fino all’acquisizione totale dell’area da parte del Comune nel 1979, con la ristrutturazione dell’edificio padronale a sede degli uffici della IX Circoscrizione e l’abbattimento del muro divisorio.

Nonostante le modifiche la Villa conserva tuttora gran parte dell’aspetto originario dell’intervento dei Lazzaroni: risulta ancora leggibile la duplicità di utilizzo dell’edificio padronale, con ingresso nobile sui giardini a nord e porticato con “stazzo” antistante a sud, delimitato da edifici rustici (fienile, magazzini e stalle) oggi utilizzati come sede della Polizia Municipale.

Dopo l’esproprio l’edificio principale di villa Lazzaroni è stato trasformato nella sede della IX Circoscrizione (ora Municipio Roma IX); la chiesa è stata trasformata nel 1984-1985 inteatro, le ex scuderie hanno ospitato fino al 2000 il IX gruppo dei Vigili Urbani, e oggi accolgono gli uffici degli Assessori del Municipio Roma IX; un edificio ospita il Servizio Giardini, l’asilo ospita una scuola elementare e il XVII distretto scolastico, parte del parco è stato trasformato in parcheggio per 200 posti auto. Sono stati inoltre aggiunti un centro anziani e un bar.

Nel 1994 il giardino è stato ristrutturato; sono state inserite alcune fontane e una tettoia per le moto dei VV.UU., mentre due aree sono state recintate e rese inaccessibili.

Nel marzo 1995 sono stati realizzati sia uno spazio riservato per i cani sia uno spazio giochi dell’ultima generazione, quest’ultimo in un’iniziativa che ha coinvolto gli alunni della scuola media G. Deledda; appena due giorni dopo l’inaugurazione un elemento risultava divelto.

Nel maggio 2001 il IX Gruppo dei VV.UU. si è trasferito in via Macedonia, andando ad occupare un piano della succursale dell’Istituto Professionale Duca d’Aosta.

La villa (6,6 ettari) è oggi uno dei pochi spazi di verde attrezzato del Municipio Roma IX, e viene utilizzata da anziani, da comitive di ragazzi e soprattutto da un numero eccezionale di genitori con bambini piccoli. Sia gli spazi verdi che il parco giochi risultano sottodimensionati rispetto al bacino di utenza; è scomparso il manto verde dei prati e i giochi sono spesso danneggiati.

Villa Lais

Villa Lais è un parco nella città di Roma. Si trova nel quartiere Tuscolano, nel territorio del Municipio IX.

L’antica chiusa (appezzamento di terreno agricolo) insisteva in un’area limitrofa all’Acquedotto
Felice, interessata dal passaggio della Marrana: il Catasto Gregoriano del 1818 mostra il nucleo originario caratterizzato da un edificio composto da un’aggregazione di vari corpi di fabbrica, denominato “casa da vignarolo e tinello”; la proprietà risulta condivisa tra Rosa Costantini e Giuseppe Merolli.
Alla chiusa sono connesse la casa di abitazione della Costantini, con una cappella privata “sotto il titolo di S. Antonio” e due “Valcherie” (dal verbo gualcare = battere) opifici per la lavorazione della lana presso il corso dell’Acqua Mariana, una di proprietà Merolli e l’altra di Vincenzo Frattini. Nella carta di Roma della Congregazione del Censo del 1839 il nucleo principale appare composto da tre edifici la cui disposizione a semicerchio, orientata verso la via Tuscolana e ad essa collegata da un lungo viale alberato, ricorda la tipologia “a corte aperta” così frequente nelle fattorie dell’Agro romano; il plesso edilizio si relaziona al terreno agricolo circostante sia come centro delle attività domestiche e produttive sia, al tempo stesso, come insediamento abitativo e residenziale. Nella pianta von Moltke del 1845-52 la vigna risulta di proprietà “Polameroli”, mentre ritorna il nome “Costantini” nella pianta dell’Istituto Topografico Militare dei 1872-75: in essa è compresa la chiesa “sotto il titolo di S. Antonio” e una cava di pozzolana, grande risorsa economica di questa parte del Suburbio; la valcheria Frattini, a testimonianza di una riconversione produttiva dell’opificio, è ora denominata “Molino S. Pio V”, ancor oggi esistente come “Mulino Natalini”. “Vigna Costantini” è ancora nella pianta di Enrico Kiepert del 1881, ma nella tavoletta dell’IGM del 1906 il nucleo centrale dei tre edifici viene a far parte degli “Orti Lais” e la valcheria Sartori diviene il “Molino Lais”.
Dal 1872, anno in cuila Villa Santacroce risulta di proprietà Lais, si assiste dunque al progressivo insediamento di questa famiglia romana nella zona, che porterà alla trasformazione della rustica vigna in residenza borghese suburbana, senza per questo cancellarne la funzione.

Una ragione certa degli interventi di trasformazione ci è testimoniata da un’epigrafe paleocristianeggiante a memoria della dedicazione alla Vergine Madre di Dio, nel 1905. Essa si trova nella cappella di famiglia, voluta da Filippo Lais e costruita in aggiunta ad un’estremità dell’edificio principale, oramai trasformato nell’impianto planimetrico e nella distribuzione degli ambienti interni.
Il Lais (1853-1941), ingegnere idraulico e presidente del Consorzio dell’Acqua Mariana, fu erudito conoscitore di storia romana e lasciò una memoria sulla Marrana, più volte ricordata dal Tomassetti, ricca di riferimenti documentari e di notizie sulla storia e l’uso di essa dal Medioevo agli inizi del ‘900.
La sua indole di studioso può spiegare la scelta puntigliosa e precisa dei motivi ornamentali utilizzati nelle decorazioni pittoriche del casino padronale, e comunque vanno a lui addebitati gli interventi di riqualificazione della “vigna”, documentati dalle piante IGM del 1924 e Marino-Gigli del 1934, che hanno ridisegnato la chiusa nelle forme attuali: la creazione di un giardino “padronale” limitrofo al casino, la costruzione di nuovi edifici di servizio (vaccheria, garage-scuderia, serra, case d’abitazione per il giardiniere e per gli addetti alla gestione produttiva); l’organizzazione funzionale dell’antica vigna viene modificata sostanzialmente con il nucleo padronale nettamente distinto dalla campagna, chiuso in se stesso, quasi contrapposto agli spazi produttivi adiacenti, da cui pure dipende.

La data limite della sopravvivenza dell’area originaria della Villa è segnata dalla creazione del quartiere di abitazioni, realizzato alla metà degli anni ‘50, che, di fatto, riduce la sua estensione a quella attuale.

ARCHITETTURA
Attualmente il complesso conta otto edifici di varie dimensioni con differenti destinazioni di uso.
Sull’asse secondario, che originariamente collegava la chiusa al mulino (oggi Natalini) sulla Marrana, insistono tre casali di forme rustiche. La vaccheria, che espone una piccola targa con la data 1901, il casale, oggi occupato dall’A.M.A., ma forse in origine abitazione di servizio, risalgono agli inizi del ‘900; il terzo, anch’esso alloggio di servizio, è di epoca più recente non comparendo nella pianta Marino-Gigli del 1934.

Le caratteristiche architettoniche richiamano l’aspetto rustico dei casali agricoli come pure quelle di altri due piccoli manufatti limitrofi al casino principale, la casa del giardiniere e il garage scuderia.
La serra presenta invece una diversa qualificazione architettonica nei prospetti, caratterizzati da semipilastri aggettanti coronati da semplici capitelli e architrave di gusto classico.

L’edificio principale riveste invece un maggior interesse tipologico: esso denuncia la sua origine aggregativa a un’aggiunta semicircolare, sede della piccola cappella privata, e l’altro decorato come una torretta, con finti beccatelli e finestrini ad arco, evidente richiamo al motivo della torre caro al gusto eclettico del revival medievale e rinascimentale.

La cappella, quasi un’abside rovesciata, sfrutta invece temi ornamentali di provenienza paleocristiana e romanica: all’esterno è visibile l’uso della cortina di mattoni interrotta in alto da file di dentelli ottenuti con spigoli di mattoni trasversali e l’ingresso è dotato di una soprapporta con timpano triangolare e peducci scolpiti in forme romaniche che racchiude un dipinto a falso mosaico con una croce centrale tra colombe affrontate.

Completano il decoro dell’edificio le cornici bugnate delle porte e delle finestre e le mensole in ferro battuto di disegno floreale che sostengono le tettoie degli ingressi principali.

Villa Fiorelli

Villa Fiorelli, già denominata Vigna Costantini, è un piccolo e signorile parco di 9000 m2 nella zona centrale della città di Roma. Si trova nel quartiere Tuscolano, nel territorio del Municipio Roma IX. Ha tre accessi: da via Enna, da via Terni e da via Avezzano.

Storia
Villa Fiorelli è diventata parco pubblico nel 1931. L’area oggi destinata a parco faceva parte di una proprietà privata adibita a zona rurale, un tempo molto più ampia, appartenente ai conti Costantini già alla fine del XVIII secolo; il primo insediamento nell’area documentato fu un edificio rustico di proprietà del conte Vincenzo Costantini, citato nel Catasto Gregoriano del 1818. Quando, nel 1848, la contessa Teresa Costantini andò in sposa a Luigi Fiorelli, la proprietà passò alla famiglia di quest’ultimo e dalla quale la villa prese il nome; all’inizio del Novecento l’area venne a poco a poco espropriata e quindi edificata. Ciò che resta dell’area verde sono i terreni acquisiti dal Governatorato della Capitale nel 1930, che ne fece un parco intorno all’area di edilizia popolare. Una lapide, posta al centro del parco nel 1982, ricorda come a Vigna Fiorelli, nel 1849, avvenne un fatto importante: il Generale Giuseppe Garibaldi, ospitato dai Fiorelli perché fieri antipapali e repubblicani della prima ora, vi fece abbeverare il suo cavallo e si riorganizzò con i suoi fedelissimi partendo poi dalle proprietà dei Fiorelli alla volta di Venezia, perché in fuga da Roma dopo la caduta della Repubblica Romana.
Nel 2003 il parco è stato restaurato e risistemato, a cura del Comune di Roma, mediante un’importante opera di riqualificazione mirata a riproporre fedelmente l’antica immagine del giardino ottocentesco ed ha assunto un aspetto signorile e curato, sull’impostazione dei parchi urbani inglesi. La nuova Villa Fiorelli è stata inaugurata dall’allora sindaco di Roma, On. Walter Veltroni, il 2 dicembre 2004. Il parco è oggi circondato da villette e palazzine di inizio Novecento, una tempo adibite all’edilizia popolare, oggi restaurate e di connotazione borghese.

Appia Antica

Appia Antica Nord

Appia Antica Nord è il nome della zona urbanistica 11x del XI Municipio del comune di Roma. Si estende sui quartieri Q.IX Appio e Q.XXVI Appio Pignatelli e sulla zona Z.XXI Torricola.

Popolazione: 2.628[1] abitanti.

Appia Antica Sud

Appia Antica Sud è il nome della zona urbanistica 11y del XI Municipio del comune di Roma. Si estende sulla zona Z.XXIII Castel di Leva.

Popolazione: 437[1] abitanti.

Parco naturale regionale Appia antica

Il Parco naturale regionale dell’Appia antica è un’area protetta di 3400 ettari istituita nel 1988 dalla Regione Lazio all’interno dei territori comunali di Roma, Ciampino e Marino, a cavallo tra l’Agro Romano e i Colli Albani lungo la direttrice della via Appia Antica. Al suo interno sono ricompresi, tra l’altro, la Caffarella e il Parco degli Acquedotti.

Caffarella

La Caffarella è una valle alluvionale creata dal fiume Almone.  È interamente nel comune di Roma ed è parzialmente patrimonio del Parco Regionale dell’Appia Antica.
È ricca d’acqua, che affiora da falde e sorgenti.
Il nome origina dall’unificazione delle tenute ivi preesistenti attuata nel ‘500 dalla famiglia romana Caffarelli.

L’ALMONE E LE SORGENTI DELLA CAFFARELLA

 Il bacino idrografico dell’Almone era un tempo separato da quello dell’Acqua Mariana. Oggi invece le loro acque si mescolano prima di giungere alla valle della Caffarella.

La valle della Caffarella, formatasi geologicamente in seguito all’eruzione del “Vulcano Laziale” lì dove ora sono i Colli Albani, è ricchissima di acque provenienti oltre che dall’Almone anche dalle numerose sorgenti disseminate lungo l’ampio territorio della valle. Tra queste le più famose sono quelle dell’Acqua Santa e quelle del cosiddetto ninfeo Egeria.

Originariamente pare che le acque dell’Almone avessero origine dalla sorgente Ferentina presso Marino e che poi dai Colli Albani si gettassero nel Tevere, all’inizio della via Ostiense. In quest’ultimo punto, in epoca romana, come narra Ovidio (Fasti v. 335) avveniva, il 27 marzo di ogni anno, una solenne cerimonia religiosa che consisteva nel lavacro della statua della dea Cibele e dei suoi arredi sacri. Il rito, chiamato “lavatio matris deum” avveniva nel bel mezzo di una festa orgiastica, in cui i partecipanti si abbandonavano a danze sfrenate, mentre un anziano sacerdote in veste purpurea compiva i lavacri.

L’origine del rito si fa risalire al tempo della seconda guerra punica, nel III secolo d.C. Difatti in quel periodo, da una profezia contenuta nei libri sibillini si evinceva che se un nemico straniero (Annibale) avesse portato la guerra in Italia, sarebbe stato cacciato e vinto solo se la Magna Mater (Cibele madre di tutti i dei) fosse stata trasportata da Pessinunte a Roma. Partì così subito una delegazione per Pessinunte, in Asia Minore, nel regno di Antalo, re di Pergamo, alleato dei Romani. Per inciso allora si faceva risalire l’origine di Pergamo a Troia, come quella di Roma.

In questa città esisteva il più prestigioso tempio dedicato a Cibele : da questo fu prelevata una grossa pietra sacra (forse un meteorite) e trasportata a Roma per collocarla in un apposito tempio costruito sul Palatino. Sennonché la nave che trasportava la pietra si incagliò proprio alla confluenza dell’Almone con il Tevere, per cui i sacerdoti di Cibele procedettero a solenni riti di purificazione, dopo di che, secondo la leggenda, fu possibile riprendere la navigazione. Grati alla dea, le autorità religiose decisero di far ripetere ogni anno la cerimonia lustrale, che si svolse annualmente addirittura fino al 389 d.C., anno in cui fu abolita per incompatibilità con la religione cristiana.

Lungo il corso dei secoli l’Almone ha subito una miriade di deviazioni e canalizzazioni, motivate soprattutto dalla necessità di irrigare i campi attigui, che da sempre sono coltivati, nella fertile valle della Caffarella. Oggi il suo percorso è riconoscibile fino all’aeroporto di Ciampino a monte e a valle fino a dove incrocia l’Appia Antica. Da qui purtroppo il fosso viene intubato nel collettore di Roma Sud.

Per quanto riguarda il suo nome, Almone, gli è stato dato, secondo l’Eneide dall’omonimo eroe troiano, figlio di Tirro, custode degli armenti dell’esercito troiano, morto nella guerra tra troiani e latini che precedette la fondazione di Roma.

Tuttavia altri nomi gli sono stati dati nell’evolversi dei tempi, tra cui quello di “acquataccio”, sul cui significato esistono due versioni contrastanti : secondo la prima, il termine deriverebbe da “Acqua d’Accia” cioè da “Acqua d’Appia” ; per la seconda versione, meno accreditata, gli deriverebbe dall’aspetto acquitrinoso della valle della Caffarella, in epoca medioevale e rinascimentale. Del resto al fiume, in epoca moderna, sono stati dati altri nomi come “marrana della Caffarella” e “fosso dello Statuario”

Per quanto riguarda le sorgenti, quella dell’Acqua Santa, un’acqua dalle decantate virtù terapeutiche sin dall’antichità, si trova in via dell’Almone, nome dato alla via che dal 1920, congiunge l’Appia Nuova con l’Appia Pignatelli.

La sorgente Egeria si trova invece inserita nell’omonimo ninfeo, ai piedi della collina dove c’è Sant’Urbano. In quel luogo formava un celebre “lacus salutaris”, così chiamato per la terapeuticità delle sue acque.

La Marrana

Nel Parco dell’Appia Antica, oltre al fiume Almone esiste un altro corso d’acqua, che ha rivestito una notevole importanza nei secoli passati, a partire dal periodo medievale.

Le sue acque difatti furono utilizzate oltre che in agricoltura anche per fornire l’energia necessaria ai numerosi mulini e opifici vari che sorgevano lungo il suo percorso. Oggi purtroppo appare come una vera e propria fogna a cielo aperto a causa degli scarichi che riceve nel territorio di alcuni comuni che attraversa come Grottaferrata, Marino e Ciampino.

La sua storia è antica e risale al Medioevo. L’antica Roma, come è noto, era servita da un sistema di acquedotti (11) che ne facevano la città meglio servita del mondo antico (13 metri cubi al secondo contro i 15 di oggi e i 12 del 1970) e in alcuni casi anche di alcune città moderne. A partire dall’assedio dei Goti di Vitige (539 d.C.), che tagliarono gli acquedotti per impedire l’approvvigionamento idrico della città, queste importanti strutture iniziarono il loro periodo di decadenza.

Così nei secoli successivi solo l’acquedotto Vergine continuò a funzionare e gli abitanti di Roma furono costretti ad usare i pozzi e le acque del Tevere. Per avere una nuova fonte di acqua potabile ci sarebbero voluti oltre mille anni con la costruzione dell’acquedotto Felice (1587). Comunque nel 1122 papa Callisto II, vista la penuria di acqua, decise di costruire un canale artificiale per riportare l’acqua nelle campagne e servire i mulini, che numerosi sorgevano anche all’interno delle mura Aureliane, per l’appunto la Marrana dell’acqua Mariana. Il suo nome si pensa che derivi dal fatto che all’origine attraversa dei territori denominati anticamente “ager maranus”; da questo il termine “marrana” che poi è stato esteso a tutti i fossi dei dintorni di Roma. Il percorso iniziale utilizzava un fosso preesistente detto dell’acqua Crabra e prendeva le sue acque da Squarciarelli e dalla fonte La Preziosa, tra Marino e Grottaferrata, cioè dalle stesse acque che rifornivano gli antichi acquedotti romani Tepula  e Julia. Il canale quindi seguiva gli antichi acquedotti e scendeva verso Roma. Vicino a villa dei Centroni, a Morena, tramite una diga quest’acqua veniva incanalata in un condotto sotterraneo appartenente all’antico acquedotto Claudio. Uscito allo scoperto il fosso attraversava la tenuta di Roma Vecchia, dove formava, almeno fino agli anni ’30 del nostro secolo, un laghetto dove vi erano anche i pesci. Quindi proseguiva verso Roma, attraversava la via Tuscolana a Porta Furba, passava per via del Mandrione e costeggiando a distanza la Tuscolana giungeva a porta di San Giovanni, formando un laghetto. Quindi costeggiava le mura, passando lì dove ora è via Sannio. Entrava in Roma a porta Metronia, quindi percorrendo l’odierna Passeggiata Archeologica e passando attraverso il Circo Massimo, si gettava nel Tevere accanto alla Cloaca Massima.

Oggi il suo tracciato, in seguito all’urbanizzazione, è completamente cambiato. Così all’altezza di Roma Vecchia è stato deviato e ora confluisce nell’Almone.

Da notare come dal medioevo fino agli anni ’60 sia esistito un organismo di gestione delle acque, all’inizio appartenente alla Basilica di S. Giovanni e poi nell’800 trasformatosi in consorzio di gestione autonomo. Ciò testimonia l’importanza economica del fosso.

Castel Porziano

Castel Porziano è il nome della ventinovesima zona del comune di Roma nell’Agro Romano, indicata con Z.XXIX.

Si trova nell’area sud del comune, separata dal complesso cittadino. Rientra nei territori amministrati dai municipi XII e XIII di Roma.

Tenuta Presidenziale

La Tenuta Presidenziale di Castelporziano, dista circa 25 Km dal centro di Roma e si estende su una superficie di 59 Km2 (5892 ettari)  comprendendo alcune storiche tenute di caccia quali “Trafusa, Trafusina, Riserve Nuove e Capocotta”, comprendendo circa 3,1 Km di spiaggia ancora incontaminata.

Castelporziano è in parte delimitata dalla via Cristoforo Colombo, che collega la capitale ad Ostia, dalla strada statale Pontina, che raggiunge la città di Latina ed in parte dalla strada statale litoranea che da Ostia conduce ad Anzio.

Territorio

Non è solo una Tenuta ma un mondo a sé stante: un posto bellissimo, naturale, di grande quiete a soli 16 chilometri da Roma, verso il mare, che si estende per 6.000 ettari: il suo perimetro è di quasi 50 chilometri. La sorveglianza è strettissima – anche se non si vede – per preservare questa che ormai è un’oasi verde, di così rara bellezza; dal 1979 nel territorio della Tenuta è stato imposto il silenzio venatorio; per questo non si caccia più.

La Tenuta è abitata solo nel Borgo dove risiedono stabilmente 44 famiglie tra Polizia, Carabinieri e Guardie Forestali e addetti alla manutenzione del territorio; il “Borgo”, quindi, è l’unico insediamento abitativo della Tenuta.

Storia

L’aspetto della Tenuta, come lo vediamo oggi, ricalca sostanzialmente l’assetto dato dalla Famiglia Grazioli che investì le sue ricchezze nella costruzione di strade e nella ricostruzione dell’intero castello facendo diventare il tutto un luogo signorile, un luogo ameno, dove poter ospitare il Pontefice, le personalità di Roma , d’Italia e dell’estero.

La storia della Tenuta, però, è molto più antica; il suo territorio risulta abitato dall’uomo fin dalla preistoria come dimostrano i ritrovamenti rinvenuti nel corso degli scavi per la costruzione della Via Cristoforo Colombo.

Numerosi reperti di ville di alto prestigio dell’età imperiale romana, poi, testimoniano che il luogo – corrispondente all’antico Fundus Procilianus (Agro Laurentino) – era stato scelto dall’antica aristocrazia romana per la vicinanza al mare giacché il territorio abbraccia la fascia litoranea che va da Ostia ad Anzio.

Le antiche ville romane erano collegate a Roma attraverso un capace sistema viario costituito dalla Via Ostiense, dalla Via Severiana e dalla Via Laurentina.

Nella stessa tenuta di Castelporziano ci sono ancora i resti di un acquedotto e della villa, con relative terme private fornite di calidarium, tepidarium, frigidarium e palestra, dell’imperatore Commodo (180 d. C.) che aveva scelto questa residenza in occasione della pestilenza a Roma ma che ne rimase rapito per la bellezza del paesaggio che, ora come allora, mostra un universo verde in modo così assoluto e totale da sentirsi sottratti alle leggi del tempo; se non ci fossero quei lunghi viali asfaltati si potrebbe credere di essere arrivati qua in un lontanissimo ieri perché tutto è identico a quell’età remota.

Nel piccolo museo delle Terme allestito all’interno della tenuta sono conservati parte dei reperti archeologici portati alla luce durante gli scavi: vi sono dei pezzi molto importanti e altri molto antichi di età preromana, come i frammenti di una volta dipinta e ricomposta in modo da poter testimoniare la moda del tempo.

Altro ritrovamento importante rinvenuto nella Tenuta è la statua di un discobolo;. oggi nel museo è presente soltanto una copia perché l’originale si trova al Museo delle Terme di Roma; la statua è a grandezza naturale, priva della testa, di una parte della gamba e di un braccio ma, è spettacolare.

Dopo la caduta dell’Impero romano e dopo le invasioni barbariche questa zona entrò a far parte dei beni della Chiesa, fu affidata, di volta in volta, ad alcuni feudatari di nomina del Vaticano e fu adibita sempre a tenuta di caccia perché la grande caratteristica era una flora meravigliosa tipica della macchia mediterranea e la grande quantità di animali.

Era un luogo molto amato dai nobili nel ‘700 e nell’’800 per le grandi battute di caccia.

Nel 1568 una famiglia di origine fiorentina i “del Nero” acquistano la Tenuta sostanzialmente per ricavarne del reddito. I “del Nero” ebbero grosse conflittualità con il popolo per l’inosservanza dei diritti acquisiti dalla popolazione con gli editti papali.

I contrasti si fecero ancora più accentuati e la popolazione diminuì sia a causa della malaria sia decidendo di andare altrove per le poche risorse a disposizione: il reddito derivava soltanto dall’allevamento degli animali allo stato brado, dall’utilizzo dei prodotti del bosco come il legname grosso e il legname da ardere.

La proprietà dei “del Nero” va avanti per circa tre secoli finché l’ultima rappresentante, Ottavia Guadagni, una vedova senza figli, aliena la proprietà (1824) ad una facoltosa famiglia romana i Grazioli che per l’acquisizione di meriti importanti da parte del vaticano – meriti economici – aveva bisogno di darsi un lustro, uno stemma; come già detto quest’ultima Famiglia promuove opere di varia natura per la rinascita del territorio.

Gli eventi precipitano e nel 1870 con la presa di Porta Pia i proprietari si trovano in difficoltà e vendono allo Stato italiano – tramite il Ministro delle Finanze pro tempore Quintino Sella – la Tenuta di Castelporziano; ciò per consentire al Re d’Italia Vittorio Emanuele II di coltivare la sua grande passione: la caccia che lo portava spesso ad allontanarsi da Roma per la lontana Tenuta in Toscana di S. Rossore; il territorio, quindi, entra, a far parte dei beni demaniali della Corona come riserva di caccia.

Dal 1948 è divenuta appannaggio del Presidente della Repubblica, che la utilizza sia come luogo di residenza e rappresentanza, sia come zona d’attività zootecniche, agricole e silviculturali nel rispetto dell’ambiente naturale. Totalmente recintata, è sottratta al pubblico e può essere visitata solo per speciale concessione.

Fauna e Flora

Nella zona a nord della Tenuta – lungo la valle di Malafede in un recinto di quasi 650 ettari– sono allevati i cavalli e i bovini maremmani che qui vivono quasi allo stato brado; tozzo ma forte, il primo è un mezzosangue vincitore di diversi premi dedicati alla razza; il toro, maestoso e possente con lunghe corna a forma di mezzaluna e le vacche maremmane con le tipiche corna a lira.

L’area, con i suoi circa 6.000 ettari d’ampiezza, si estende dalla spiaggia dunosa ora in gran parte aperta ai bagnanti (pur essendo uno dei pochi tratti di costa laziale in cui è quasi integra, anche se è un ambiente fragile che facilmente può essere distrutto da un eccessivo calpestio) fino ad una profondità di 9 Km. nell’entroterra.

Il 70% circa del territorio della tenuta è costituito da boschi con prevalenza di querce come la farnia, il leccio, il cerro e la sughera che comincia a fornire il sughero all’età di 25 anni con prelievi ogni sette anni – in media una sughera vive 200 anni; numerose sono anche altre piante di alto fusto: il pino domestico – più conosciuto come pino marittimo – il frassino, l’olmo, l’acero, l’ippocastano, il bagolaro, il melo e il pero selvatico, l’eucalipto introdotto per bonificare le zone paludose, nonchè tratti a  praterie, zone depresse allagate (le cosiddette “piscine”) e macchia mediterranea.

Nella zona di Capocotta la vegetazione cambia: si vedono tuje, noccioli, aranci, filliree e di notevole interesse sono le pinete, di cui la più vecchia risale al secolo scorso e una pianta di fillirea di circa 1200 anni abbraccia un rudere antico come volesse proteggerlo dallo scorrere dei secoli.

Il sottobosco è composto dalle piante tipiche della macchia mediterranea; il mirto, il lentisco, il corbezzolo, il cisto, l’erica, la ginestra, l’alloro, l’oleastro, la fillirea, il rosmarino, il rovo, il ginepro, il prugnolo, il biancospino, l’asfodelo, lo stramonio.

All’ombra di boschi si trovano un gran numero di animali che hanno resa famosa la tenuta, quali il cinghiale, il daino, il capriolo e il cervo reintrodotto nella tenuta negli anni ’50 dopo che era scomparso a seguito di avvenimenti bellici.

Ci sono anche i piccoli mammiferi quali la volpe, l’istrice, il tasso, la martora, le lepri, i conigli selvatici e tra i volatili stanziali: i fagiani, le ghiandaie e il barbagianni, i corvi, il nibbio bruno, l’airone rosso e il cinerino, le garzette, il gufo reale, alzavole e germani reali.

Le dune

Le dune, che fila dopo fila si spingono fino al mare sono ricoperte da piante erbacee come il cardo selvatico e cespugli di erbe striscianti che vivono sulla sabbia e resistono all’azione del vento salmastro.

E’ uno spettacolo che cambia con il fluire delle stagioni e che muta luce ed emozione durante la giornata; protagonista è la macchia mediterranea che si presenta su tre livelli: altofusti, arbusti e piante erbacee alternandosi con dune degradanti verso il mare.

Qui all’imbrunire è possibile udire il rumore sordo del cinghiale in corsa, gli scatti metallici degli aculei dell’istrice ed il verso dei rapaci notturni come il barbagianni.

Resti Antichi

All’interno della tenuta sono presenti numerosi resti di ville romane del tardo periodo repubblicano, per lo più utilizzate per l’attività rurale. Tra questi spiccano i ruderi della villa di Plinio il Giovane, in prossimità di quanto rimane dell’antica Via Severiana.

Villa di Plinio
All’interno della pineta di Castel Fusano, ad appena 200 metri dal confine con la tenuta di Castel Porziano e lungo quanto rimane dell’antica Via Severiana, sono stati rinvenuti i resti di una villa romana risalente all’ultimo periodo repubblicano. Gli scavi che hanno portato alla luce quella che da tutti è conosciuta come “villa di Plinio” furono condotti nel 1935, per localizzare, appunto, la bellissima residenza sul mare di proprietà di Plinio il Giovane, avvalendosi delle indicazioni per raggiungerla fornite dallo stesso in una lettera all’amico Gallo. In verità i suddetti resti non apparterrebbero alla villa di Plinio, che è invece situata a circa 1 Km. di distanza, all’interno della tenuta presidenziale (nei pressi della cosiddetta Villa Magna, in località Grotte di Piastre). I ruderi rinvenuti nell’area del Parco di Castel Fusano sarebbero attribuibili alla villa estiva dell’oratore Ortensio, vissuto tra il 114 ed il 50 a.C.
Il muro di cinta di tale villa (che è possibile visitare su appuntamento) è visibile in una vasta radura a fianco ai resti di una basilica paleocristiana, alla quale si accede allontanandosi dalla Via Severiana lungo il sentiero all’altezza del paletto numero 16. Purtroppo della struttura originaria, oggetto di scavi clandestini e spoliazioni fin dal 1700, è rimasto ben poco. Osservando i vari tipi di muratura utilizzati è stato però possibile dedurre che la struttura è stata edificata in varie fasi. Un primo impianto, costituito da blocchetti di tufo, risale all’età Giulio-Claudia. E’ poi presente un ampliamento in mattoni databile al II sec. d.C. Di particolare interesse sono una zona adibita a terme con mosaico rappresentante Nettuno circondato da fauna marina mentre guida un ippocampo, ed un altro mosaico a tessere bianche su sfondo nero, situato subito dopo l’arco d’ingresso alla villa.

Via Severiana
Ultima delle grandi strade imperiali romane, fu fatta costruire dall’imperatore Settimio Severo in un periodo molto florido per Roma, tra il 198 ed il 209 d.C., al fine di collegare Ostia e la città di Porto (la Fiumicino dell’epoca) con Anzio e Terracina. Il suo percorso costiero probabilmente seguiva il tracciato di una pista sterrata già esistente. Concepita per scopi commerciali ed in particolare per il trasporto della calce dei monti Lepini, la Severiana entrava ad Ostia da sud, passando di fronte alla sinagoga risalente al I sec. d.C. (ancora visibile lungo la strada che da Ostia Antica porta al Ponte della Scafa). Proseguiva poi, attraverso l’Isola Sacra ed il “pons Matidiae” (le cui tracce sono venute alla luce negli anni ’70, nel corso degli scavi effettuati dall’Istituto di Archeologia Cristiana dell’Università di Roma), sino a Porto (Portus Ostiensis Augusti).
Un percorso molto suggestivo, tuttora riconoscibile grazie a cospicue tracce di lastricato di basoli in pietra lavica, che, anche se solo a tratti, è visibile per oltre 5 Km. attraverso una delle principali ricchezze naturalistiche della zona (l’area di Castel Fusano, Castel Porziano e Capocotta). Proprio grazie a questa strada il traffico verso sud aumentò notevolmente e la Severiana divenne col tempo una delle vie più utilizzate di tutto l’impero. Anche per questo numerosi furono i personaggi illustri che vollero costruire le loro dimore in prossimità di essa. Imperatori, come Commodo e persino Augusto e grandi letterati, come Plinio il Giovane e l’oratore Ortensio. Resti di tali splendide ville sono ancora visibili all’interno della pineta di Castel Fusano e della tenuta di Castel Porziano.

Castel Fusano

Castel Fusano è il nome della trentesima zona del comune di Roma nell’Agro Romano, indicata con Z.XXX.
Il toponimo indica anche la zona urbanistica 13h del XIII Municipio.
Si trova nell’area sud del comune, separata dal complesso cittadino.
Insieme alla zona di Casal Palocco è la sola, delle attuali 53 del comune di Roma, i cui confini non sono delimitati da alcuno fra il GRA, il Tevere, il Mar Tirreno o un altro comune. Tutte le altre zone confinano con almeno uno di essi.

La Pineta
Situato presso il lido ove secondo la leggenda i fati condussero Enea, il parco urbano Pineta di Castel Fusano (istituito dalla Regione Lazio dal giugno 1980) si estende per oltre 1.000 ettari e costituisce la più vasta area di verde pubblico del Comune di Roma. Tale territorio ebbe nei secoli proprietari illustri, quali gli Orsini, i Corona ed i Fabi, per passare ai Sacchetti nel 1620 ed infine ai Chigi. Nel 1932 fu aquisito dal Governatorato di Roma ed aperto al pubblico l’anno successivo. Presenta zone con vegetazione più o meno fitta, a seconda che domini la macchia sempreverde autoctona (in prevalenza lecci) o il pino domestico (pinus pinea). Quest’ultimo, introdotto dall’uomo alla fine del 1600, ha dato origine ad un paesaggio monumentale che sebbene fondamentalmente artificiale ha un enorme valore storico. Un vasto lembo di macchia litoranea si estende poi parallelamente alle dune, con prevalenza di leccio, corbezzolo, lentisco, fillirea, erica arborea, mirto, alaterno, ginepro fenicio, rosmarino ed osiride.
In un simile ambiente è presente una fauna molto varia, specie per quanto riguarda gli uccelli, anche in virtù della vetusta età dei pini. Picchi, upupa, capinere, occhiotti, volatili tipici della macchia mediterranea, cinghiali, donnole, volpi, faine, ricci, istrici e tassi e non è raro incontrare esemplari di testuggine. Numerosissime sono anche le specie di insetti, a volte assai rare, che trovano rifugio nel legno putrescente di alberi morti o caduti. Nel luglio del 2000, un disastroso incendio ha interessato proprio i300 ettari della pineta monumentale secolare, costituita da pini radi di grandi dimensioni e da un folto sottobosco di piante della macchia sempreverde mediterranea. I danni sono stati ingentissimi, più di 280 sono stati gli ettari andati distrutti, e pur provvedendo ad interventi di recupero ci vorranno secoli prima di riuscire a ricostituire il paesaggio originario (in considerazione anche del fatto che il problema incendi si ripropone inevitabilmente tutte le estati).